Wednesday, December 22, 2010

Cercando gli Jalq'a - Sucre e la sua provincia tra modernità e cultura ancestrale (24-31.7.2010)

I: Preparazione
Il centro di Sucre è la città bianca. Le lunghissime strade che salgono dal grande parco alla cattedrale, fino al colle della Recoleta, sono tutte di edifici bianchi di calce. Bianche le chiese più antiche, come il convento della Recoleta, che domina dall'alto l'intera città, o quello di San Francesco, proprio accanto al suo cuore più vivo, il mercato centrale. Bianco anche questo, e ricco di ogni merce. Dalle carni degli allevamenti andini, alle spezie e la frutta più colorata disposta in acrobatiche piramidi variopinte nelle bancarelle del cortile. Bianchi sono anche gli edifici storici, come l'antico palazzo del governo, oggi uno dei più bei musei della Bolivia, dedicato alla storia della sua liberazione dalla colonizzazione spagnola, e a mostre temporanee che rendono fruibile per il grande pubblico l'arte contemporanea andina. Bianchi sono anche gli edifici dell'università, una delle più importanti del paese, resa viva da un'attiva popolazione studentesca. Una città dove tradizione e modernità sembrano aver trovato un equilibrio, tra l'antico aspetto coloniale delle strade, delle case con i patios interni, e un dinamismo che viene dallo sviluppo del commercio e del turismo. Una città che funge anche da cerniera tra l'oriente boliviano, ricco dei grandi giacimenti di gas e di petrolio, secessionista e ribelle al governo centrale, oggi presieduto da un indio Aymarà, e l'ancestrale mondo delle Ande.

Questo mondo ancestrale fa la sua comparsa nella bellissima mostra dedicata ad artisti contemporanei boliviani, che si sono ispirati all'antica cultura religiosa delle Ande. Eppure, anche nelle opere più belle e meritevoli, il mondo ancestrale appare come sterilizzato e trasposto in un linguaggio che non è il suo proprio, ma quello dei movimenti artistici europei ed occidentali. Come nei bei bronzetti di Ted Carrasco che rappresentano la Madre Terra (Pachamama), evocando troppo da vicino l'opera di Henry Moore; o quelli di Francine Secretan, i cui mistici condor, nel loro rigore geometrico, ricordano la scultura di Arnaldo e Giò Pomodoro.

Per scoprire un po' più da vicino quest'universo ancestrale, bisogna allontanarsi pochi chilometri dal centro, nell'area del Mercado Campesino. Qui, direttamente dalla campagna vengono i campesinos a vendere i loro prodotti. L'atmosfera è assai più caotica, ed il mercato non è confinato all'area ristretta di un edificio con i suoi annessi, ma copre un intero quartiere. Naturalmente, nella sua parte centrale, non vi è una grande differenza col Mercado Central: i prodotti sono più o meno gli stessi, e la qualità non è inferiore. Solo i prezzi sono più bassi. Così, non sorprende vedere che anche le signore della buona società vengono qui a fare la spesa. Tuttavia, spostandosi nelle vie laterali, si scopre un universo diverso e nuovo. Moltissimi sono i commercianti di vestiti e calzature usate, e poi, un'intera area dedicata alla brujeria, la stregoneria.

Chi volesse vedere streghe e maghi attorno a fumanti pentoloni sbaglierebbe posto. Qui la brujeria non è una coreografica attività da Disneyland, per soddisfare le morbose curiosità dei turisti, ma un aspetto assai serio della vita, strettamente legata ai culti religiosi e alla medicina tradizionale. Così, al mercato, possono trovarsi in vendita vari tipi di erbe curative, in grandi cumuli o accuratamente selezionate e vendute in piccoli sacchetti: rimedi per lo stomaco e le ulcere, o erbe per i mali delle donne. Accanto a questi prodotti medicinali, si vende anche tutto ciò che serve per una corretta pratica religiosa. Perché, secondo la cultura popolare andina, culto religioso, salute e benessere economico sono aspetti di uno stesso equilibrio che bisogna conseguire nella vita. Così, tante bancarelle espongono i feti di lama, una delle più importanti offerte per il culto della Madre Terra, indispensabile per propiziare i raccolti, ma anche il benessere delle famiglie. Ed insieme a questi, boccette di liquore, gallette di zucchero e spezie, erbe medicinali ed aromatiche e falsi dollari americani, che solitamente si offrono in apposite scodelle alla Madre Terra nel mese di agosto a lei sacro.

Per scoprire un po' più a fondo la civiltà contadina della regione di Sucre, è d'obbligo una visita al museo antropologico dell'ASUR, un centro studi sulle culture delle Ande meridionali. Il Museo è prevalentemente dedicato alle opere tessili, che costituiscono i manufatti più pregiati delle due più importanti culture nazionali della regione: i Tarabuco, nell'area a sud-est di Sucre, e gli Jalq'a, a nord-ovest. I manufatti esposti coprono una vasta tipologia. Dalle stoffe aniconiche e più antiche, a quelle che riproducono immaginari animali sacri ed uomini, a quelle più elaborate, in cui si raffigurano i riti della terra, e il calendario delle feste e dei lavori. Sono queste le opere in cui la cultura ancestrale si esprime con mezzi propri, e secondo una tradizione artistica viva e autoctona.
E' proprio la visita a questo museo che mi convince a viaggiare verso Potolo, uno dei villaggi Jalq'a di maggiore importanza. Raggiungere Potolo non è un'impresa facile, soprattutto per le scarse informazioni disponibili per recarsi sul luogo. Alcuni indizi, fortunatamente, mi sono stati forniti dal personale del Museo, come i nomi ed i recapiti telefonici dei responsabili della comunità. Tuttavia, chiamare quei numeri di telefono, che corrispondono ad apparecchi pubblici, a disposizione dell'intera comunità, non rende le cose semplici. Dopo diversi tentativi, riusco a contattare qualcuno che mi risponde in un castigliano stentato. Gran parte degli Jalq'a, infatti, parla solamente la lingua locale, una delle tante varianti del quechua. Quindi, sono riuscito a fissare un appuntamento telefonico con Pablo, il responsabile per l'accoglienza della comunità, che però, non parlando bene il castigliano, non mi è stato di grande aiuto. Riesce a capire che sarei arrivato di lì a qualche giorno, ma non è stato in grado di spiegarmi come raggiungere il villaggio e con quali mezzi. Devo allora cercare una via alternativa per conseguire informazioni.
Una di queste è stata rivolgersi ad alcune agenzie turistiche di Sucre. Tuttavia questi operatori, che organizzano tours nella regione, sono molto restii a fornire informazioni. Loro offrono pacchetti turistici, che però limitano al massimo il contatto con le popolazioni locali, per lucrare su qualsiasi forma di intermediazione. Così non mi resta che tentare col nucleo di polizia di stanza presso la stazione centrale degli autobus. Sono loro ad aiutarmi a scoprire quali mezzi pubblici si recano giornalmente a Potolo e da quale area della città partono. Con queste informazioni sono pronto a mettermi in viaggio.

II: Verso Potolo
Il mattino dopo ero pronto a recarmi in un'area periferica di Sucre, la rotonda di Yarac Yarac (o Jarac Jarac), un piazzale da dove partono i mezzi per Potolo e Maragua, i principali villaggi Jalq'a. Con me porto qualche provvista, perché nelle aree rurali generi come formaggio, frutta (avevo appeno scoperto le chirimoyas!) e pane sono estremamente difficili da trovare. Lascio la mia pensione molto presto, alle sei del mattino, perché gli orari dei mezzi di trasporto sono incerti, ed essendocene solo uno al giorno, perderlo avrebbe significato sprecare un'intera giornata.
Prima delle sette, giungo in quest'area periferica. Intorno non c'è nulla. Una grande spianata in terra battuta, in mezzo a strade sterrate ed un quartiere di povere baracche di muratura e mattoni di fango. Alle otto, questa strana piazza comincia a popolarsi. Scendono gruppi di contadini, qualche decina di maiali si aggira pascolando intorno tra mucchi di detriti, e oche, galline e cani, che poco alla volta affollano la spianata. Sembra una strana sagra di campagna. Un enorme gallo scappa ad un'anziana contadina, ed un gruppo di volenterosi si offre a riacciuffare il fuggitivo. Poi, finalmente, arrivano due vecchissimi autobus e qualche camion. Riesco a scoprire che uno di questi andrà a Potolo, e che devo farmi avanti in una specie di baracchetta di lamiera che funge da officiolo per fare il biglietto. Siccome sono uno dei primi quaranta fortunati, riesco ad ottenere un posto a sedere, e malgrado altri viaggiatori cerchino di mettersi davanti, la donna che gestisce la vendita, lo assegna insindacabilmente a me. Mi sento profondamente grato per il suo senso di giustizia.
L'orario nominale di partenza è alle nove del mattino. L'autobus, però, partirà due ore dopo. La strada per Potolo, infatti, è in costruzione, e viene aperta brevemente solo durante la pausa degli operai, subito dopo mezzogiorno. Nel frattempo, ho tempo di familiarizzare con gli altri viaggiatori ed i loro rispettivi animali (polli ed oche), mangiare un paio di empanadas vendute da un ambulante, e di far caricare il mio zaino sul bagagliaio sul tetto. Finalmente si parte.
Il primo tratto del viaggio dura molto poco. Giunti al cantiere ci fermiamo in attesa dell'apertura della strada. Nel frattempo, dai dintorni, cala una moltitudine di contadini per vendere ai viaggiatori i loro prodotti. Anche qui, mentre aspettiamo la pausa degli operai, non ci resta che mescolarci ai locali, umani ed animali che si raccolgono da ogni parte. Nel frattempo familiarizzo con la mia vicina di sedile, un'anziana signora, infermiera in pensione, che mi parla, insieme ad altri giovani, delle feste tradizionali di Potolo e dei villaggi vicini, soprattutto del carnevale, e dei loro balli tradizionali. Tutti sono dispiaciuti che in questo periodo non posso assistere alle celebrazioni dell'estate australe, e sono incuriositi dal mio interesse. Finalmente si riparte.
La strada in salita, corre lungo i margini della montagna. E' strettissima e contornata da precipizi. I freni del vecchio autobus si rompono, e scendiamo per qualche decina di metri, ma grazie alla prontezza dell'autista, ci ancoriamo al muro dal lato della montagna. Tutti i passeggeri scendono precipitosamente spaventati, guardando, sul lato opposto, il burrone. Dopo un po', l'autista e il suo assistente riescono a riparare il mezzo, ma molti non vogliano risalire. Finalmente, dopo tante rassicurazioni da parte dell'autista, si riprende il viaggio attraverso le montagne, fino a Potolo.
Il villaggio si trova a qualche centinaio di chilometri da Sucre, ma è un mondo a parte. Nel piccolissimo centro, le strade sono tra casette di muratura, quelle più ricche, o di adobe, la maggioranza. Ci sono due o tre piccole botteghe, presso le quali si vendono beni di prima necessità, mentre i due edifici più importanti sono la chiesa (chiusa) e la scuola. Tutt'intorno sono piccoli campi e casette di adobe. In una di queste abita Pablo, il responsabile del villaggio. Oltre, è un bellissimo paesaggio di montagne, colline argillose e il fiume, dalla portata ridotta in questa stagione, che scorre poco oltre il paese. La vallata è dominata da un piccolo santuario, sede di un pellegrinaggio locale, in cui il culto cristiano si mescola con quello tradizionale per la madre terra. Qui, i contadini da tutti i piccoli villaggi circostanti accorrono per esprimere i loro voti, e ringraziare Dio o la Madre Terra delle grazie ricevute.

III: Finalmente arrivato
Raggiungo Pablo nel cortile della sua piccola casa. E' fatta di due baracchette di adobe, col suolo in terra battuta e il tetto di paglia. Una di queste include anche un pollaio. Naturalmente niente acqua corrente e niente elettricità. Intorno è un campo coltivato a mais. Vicino, liberi in un piccolo recinto, ci sono pochi capi di bestiame, e due asini. Mentre tutta la sua famiglia siede per terra, mi offre il posto d'onore, un piccolo sedile su cui mette vecchi stracci per renderlo più comodo. Mi offre in un piatto un dolce fatto con un impasto di farina cruda immerso nell'acqua zuccherata, e fa chiamare il nipote, Pedro. Lui è un ragazzino di dodici anni, l'unico che va a scuola e che parla in castigliano, e farà da interprete per aiutarmi in tutte le mie esigenze. Attraverso Pedro, capisco che mi sarà data ospitalità in un piccolo complesso di bungalow di adobe e paglia, che è stato realizzato con un progetto di cooperazione per sviluppare il turismo etnico.
Il bungalow è dotato di ogni comfort. Tutto quello che manca nelle case dei contadini Jalq'a, lì si trova. Comodi letti con coperte e lenzuola pulite, tavoli e sedie, fatti tutti artigianalmente con materiali locali, il privilegio di un bagno con la doccia (anche se gelida), un pavimento in muratura e blocchi di pietra, e, grandissimo lusso, l'elettricità. Eppure, malgrado, queste buone strutture ricettive, sono pochissimi i turisti che riescono a raggiungere questo villaggio, e gli ultimi ospiti erano venuti molti mesi prima.
Pablo e Pedro mi vengono a trovare di notte, e concordo con loro di avere una guida locale che mi accompagni per il territorio Jalq'a per visitare le montagne, le zone archeologiche e i villaggi circostanti. Dopo qualche ora ritornano insieme a Trifòn, da domani la mia guida Jalq'a.

IV. Da Potolo a Maragua

Alle 7 del mattino, Trifòn viene a prendermi nel mio bungalow, e cominciamo a metterci in cammino. Nella strada, incontriamo dei conoscenti della mia guida, di ritorno dal santuario, dove hanno effettuato le loro offerte votive e di ringraziamento. Sono un gruppo di uomini e donne che si riposa sul lato della strada. Dopo aver scambiato qualche parola con Trifòn, ci invitano a bere insieme una bevanda alcolica, che sembra averli tenuti caldi e allegri durante la notte, in attesa di riprendere il cammino per il loro villaggio. Non posso esimermi dal partecipare al rituale alcolico, anche se di primo mattino ne avrei fatto a meno. Trifòn chiede anche informazioni sul nostro percorso, ed una volta ottenutele, salutiamo e ci rimettiamo in cammino. Dopo diversi chilometri a piedi ed una breve corsa su di uno sgangheratissimo bus, raggiungiamo la scalinata preincaica. Si tratta di una lunghissima scala, scavata nella roccia, che si inerpica per le montagne, fino alle vicinanze delle aree archeologiche di Incamachay e Pumamachay, due siti di cultura rupestre, nel territorio della comunità indigena Tumpeca, appartenente all'etnia Jalq'a.

Pumamachay è un'angusta grotta nella quale sono preservati ampi resti di pittura rupestre, che include forme aniconiche a spirale e figure umane, tutte realizzate con una vernice nera, probabilmente ricavata dal carbone. Più ampio è il repertorio figurativo di Incamachay, a poca distanza dalla grotta. É un'ampia spelonca, decorata con figure umane, animali e geometriche, alcune probabilmente allusive a forme architettoniche, realizzate in parte a graffiti, in parte con colori rosso e bianco.
Il guardiano Tumpeca, che si occupa del sito, mi mostra i pochi studi realizzati da un'università americana ed una boliviana, che si limitano ad una semplice classificazione dei tipi iconografici, senza avanzare alcuna concreta ipotesi sul significato iconografico delle opere rupestri.
Abbandonati i siti archeologici si continua per un sentiero che passa per terrazzamenti e baracche, disabitati nella stagione invernale, fino a giungere alla valle del fiume Ravelo. È una delle aree più pittoresche di questo percorso, con ampi campi coltivati, prati e boschi di eucalipti, che la luce intensa del pomeriggio rende brillanti nei colori: il verde dell'erba, l'oscuro della terra, il rosso dell'argilla, e l'acqua del fiume che scende brillante tra le pietre bianche.

In uno dei campi si seminano le prime patate della stagione. Al lavoro partecipa tutta la famiglia. Due uomini conducono l'aratro tirato dai buoi, seguiti da una donna che semina, mentre i bambini aiutano, un po' per gioco, un po' sul serio, portando un sacco. È un'agricoltura di puro sostentamento, condotta con mezzi poveri e primitivi, che serve solo a dare l'indispensabile da vivere alla famiglia.
Agricoltura e pastorizia sono alla base della nazione Jalq'a, le cui povera economia sembra vivere lontano dal tempo e dalla modernità, seguendo un calendario dettato dai cambi di stagione. La contraddizione che appare immediatamente è quella tra la bellezza del paesaggio, in cui l'azione dell'uomo sembra coniugarsi armonicamente alla natura del luogo, e la fatica della vita, resa difficile dagli esigui e primitivi mezzi di produzione.
Al termine del sentiero lungo la sponda del fiume, si giunge ad una carrozzabile, che porta fino a Chaunaca, un piccolo villaggio, dove è possibile fermarsi per riposare e rifornirsi d'acqua potabile. Lo facciamo presso due antiche vecchiette, che Trifòn sembra conoscere bene. Le incontriamo in un cortiletto chiuso tra mura e due baracchette d'adobe, un po' casa un po' stalla, dove a piede libero circolano galline, paperi, cani e conigli.

Il volgere del giorno non ci permette un più lungo riposo. Dobbiamo, perciò, continuare il cammino fino a Maragua. Da Chaunaca, su un'altura che domina il fiume, scendiamo a valle, ed attraversiamo ad un guado. L'acqua bassa in questa stagione rende facile l'attraversamento, e ci permette di accorciare sensibilmente il percorso. Al tramonto, la temperatura comincia ad abbassarsi. Mancano ancora una decina di chilometri per Maragua, e dopo più di dieci ore di cammino, la stanchezza si fa sentire. Specie per me, che non sono abituato all'altitudine. Ci soccorre un camionista, che ci fa salire sul cassone, dove possiamo accomodarci sul suo carico di sabbia. Al termine del tragitto la sabbia si sarà infilata dappertutto, nei vestiti, negli zaini, nelle scarpe, e masticheremo sabbia, e berremo sabbia con l'acqua. Eppure, sedersi e sdraiarsi sulla sabbia umida e fredda è un vero sollievo.

Finalmente arriviamo a Maragua, nel cantiere dove il camionista lascerà il suo carico. Qui si costruisce una nuova scuola e un centro civico. Per quanto limitati, per le poche risorse economiche, questi interventi promossi dal governo centrale, hanno un forte impatto sulle popolazioni locali, dando lavoro ad operai del posto, e costituendo un importante centro di pubblica istruzione in una delle zone più isolate ed economicamente depresse del paese. In attesa che il nuovo edificio sia completato, i bambini frequentano la scuola in un vecchio edificio, assai più piccolo, ed in precarie condizioni. Eppure, i contributi governativi alle famiglie ed alle comunità locali per stimolare la frequenza scolastica sembrano avere un impatto sulle popolazioni locali. Il giorno dopo, infatti, incontreremo tantissimi bambini che, scendendo dalle montagne, si affrettano per andare a scuola di primo mattino.
Anche qui, come a Potolo, il progetto di cooperazione dell'Asur ha permesso la costruzione di bungalows per i pochi viaggiatori che si addentrano in questo territorio, e così possiamo contare su di un comodo letto per la notte.

V. Come in un cerchio, il ritorno, da Maragua a Potolo

Il cammino lo riprendiamo presto al mattino. Da Maragua, al centro di un'ampia vallata, risaliamo le montagne circostanti, che si dispongono come ampie creste arrotondate. La loro forma ricorda vagamente quella delle colline toscane, solo assai più brulle, ad un'altitudine di oltre tremila metri, e coperte appena da una povera vegetazione arbustiva. Poco lontano, si giunge ad una costa rocciosa che rivela uno dei segreti più affascinanti di questa regione. I movimenti tettonici hanno fatto riemergere uno strato in cui sono rimaste impresse le tracce fossili di animali preistorici, rivelando un possibile movimento migratorio avvenuto milioni di anni prima.

Non è l'unico caso di una simile evenienza in questa zona delle Ande, un tempo non così elevata sul livello marino. Proprio in uno dei quartieri periferici di Sucre, a qualche centinaio di chilometri dal territorio Jalq'a, lo sbancamento di una montagna, effettuato da un'impresa cementiera, aveva rivelato la presenza di impronte simili. Quest'area suburbana, a poca distanza dal centro cittadino, costituisce adesso un parco d'istruzione sulla fauna preistorica, il Parco Cretaceo, visitato da migliaia di turisti ogni giorno. Per contro, la solitudine del territorio Jalq'a, rende assai più suggestive queste tracce di vita animale, risalenti a milioni di anni fa.
Nel cammino verso Potolo, incontriamo pochi pastori. Una giovane adolescente, insieme ad un fratellino più piccolo, col loro gregge di capre, e un uomo che porta al pascolo i suoi asini. Per il resto, le poche case che incontriamo sul cammino appaiono abbandonate. Saranno nuovamente popolate nel corso della stagione calda, quando, durante i mesi estivi, i piccoli allevatori locali, risaliranno verso le quote più alte.

Quest'area montuosa era probabilmente parte di un fondale marino, come suggerito dai resti fossili. Proprio la sua singolare formazione geologica la rende di grande interesse. Molti dei corsi d'acqua sono salati, probabilmente per gli strati di terreno attraversati dalle acque sorgive, in cui il cloruro di sodio è rimasto imprigionato da epoche remote. Così, anche se il cammino è particolarmente accidentato, discendiamo verso la valle di uno di questi fiumi. È un'area difficilmente accessibile dalla posizione nella quale ci troviamo. Il vallone al di sotto di noi, dove scorre il corso d'acqua, è assai ripido da discendere, accidentato, e privo di un sentiero segnato. Tuttavia, questo è l'unico cammino possibile per raggiungere una peculiare salina in mezzo alle montagne dai singolari metodi estrattivi.

Giunti a valle, le pareti rocciose mostrano ampie tracce di sale ed altri minerali cristallizzati. Risalendo il corso, raggiungiamo una valle nella quale la portata delle acque si fa più ricca, e di li risaliamo una parete rocciosa che ci porta alla salina. Questa è costituita da un'intricata rete di canalette costituite da tronchi cavi, attraverso i quali è convogliata l'acqua che scende dalla parete rocciosa. L'acqua, scorrendo lentamente lungo le canalette, evapora col calore del giorno, e deposita il sale cristallizzato, che così può essere facilmente estratto.
Come avviene per tutte le risorse del territorio, lo sfruttamento della salina avviene a vantaggio della comunità locale. La sorveglianza e l'estrazione del minerale viene curata da un membro della comunità, incaricato di stare presso il sito e di vendere o barattare il prodotto ad acquirenti che si recano sul posto. Il ricavato viene impiegato per progetti che vanno a vantaggio dell'intera comunità. La commercializzazione del sale è solitamente effettuata da piccoli proprietari di animali da soma, che sono gli unici che possono raggiungere la salina. Estrazione e commercializzazione del sale, come tutte le altre attività che si svolgono sul territorio Jalq'a, è parte di un'economia che ha respiro locale, e che si mantiene solo nell'isolamento delle comunità che abitano questa regione montuosa, con contatti limitati o inesistenti con i maggiori centri cittadini circostanti.
Risalita la valle del fiume sul versante opposto alla salina, il percorso verso Potolo è assai agevole, e si snoda prima lungo un'ampia carrabile, poi attraverso agevoli sentieri lungo le colline argillose sul versante sud-orientale del villaggio. Dall'alto si coglie lo sviluppo del territorio circostante: Potolo appare su un'ampia pianura alluvionale, con piccoli appezzamenti intensamente coltivati.

Al rientro Pablo mi accoglie ancora una volta nel suo cortile. Pedro ritorna poco dopo, e vista la mia stanchezza mi accompagna al bungalow a riposare. Tornerà più tardi, insieme a Trifòn ed i cugini più piccoli, ad ascoltare le storie del mio viaggio, ed a vedere le foto.
Per dei giovani che hanno sempre vissuto nel villaggio, con una vita che li obbliga alla sedentarietà dei lavori del campo, i luoghi che ho visitato nel sud del Lipez o nella regione di Potosì sembrano mitici e irraggiungibili. Il mio racconto del Salar de Uyuni o delle miniere del Cerro Rico, accompagnato dalle mie foto di viaggio, sembrano avere un forte impatto sulla loro immaginazione. Eppure, da Potolo, anche Sucre, relativamente vicina, appare remota ed esotica, una città fantastica e meravigliosa, quasi come quelle di cui parla Calvino nel suo libro. Di Sucre e del suo mercato “campesino” hanno soltanto sentito parlare dai più grandi come di un luogo di mistero ed avventura.
Questo totale isolamento, nel quale vivono i villaggi Jalq'a, ha fatto sì che si siano mantenute con fedeltà le tradizioni locali. Molti Jalq'a, come Pablo, continuano ad indossare il vestito tradizionale di lana, interamente lavorato a mano: i pantaloni, la pesante camicia, la giacca e il cappello a falde piccole, tutti rigorosamente bianchi, con fasce decorative a disegni geometrici su fondo scuro. Questi non sono abiti di festa, per celebrare ricorrenze importanti, ma indossati quotidianamente, vengono portati per lavorare nei campi. Qui, si sono anche conservate le feste legate al ciclo contadino, e soprattutto il carnevale, con danze tipiche, di cui mi parla diffusamente e con orgoglio Trifòn. Così, si è anche conservata una tradizionale produzione tessile, che adesso, però, viene vista come un'importante opportunità economica, da quando l'ASUR ha permesso una maggiore commercializzazione dei manufatti locali.
Anche il lavoro nei campi, che si svolge con mezzi arcaici, sembra ereditato da un passato immutabile. E così pure l'allevamento, il commercio, e tutta l'economia locale, che si sviluppa su un territorio limitato, non superando il livello della sussistenza.
Aspetti arcaici si riscontrano anche nell'impiego e sfruttamento delle risorse del territorio, che fa sempre capo alla comunità locale del villaggio, su basi collettive. Così, sono le comunità locali che si fanno carico sia del mantenimento e sorveglianza dei siti archeologici rupestri, delle risorse minerarie, come lo sfruttamento delle saline, o dei progetti di sviluppo collettivi, come quello di turismo rurale, pur se amministrato con troppo ingenuità e promosso con scarsi risultati. Ed ovviamente, è la comunità nel suo insieme che ne amministra i benefici.
In questo territorio, l'emergenza della modernità è ancora un'evenienza accidentale, portata da qualche occasionale antropologo, dagli insegnanti al servizio delle poche scuole locali, o dai pochissimi turisti che si addentrano in questa regione. Questi ultimi, spesso, resi inavvicinabili dall'insuperabile barriera dei fuoristrada guidati dagli operatori turistici di Sucre, o dal muro degli idiomi e delle culture diverse. L'isolamento delle comunità è anche prodotto dall'assenza di servizi di base, come la mancanza di servizi sanitari oppure di una rete di distribuzione postale, che oggi rende impossibile inviare o ricevere alcunché in questo territorio andino.
È probabile che l'ampliamento della rete stradale, promossa dal governo centrale, avrà un forte impatto sulle popolazioni che hanno vissuto isolate per secoli. È difficile valutare quale sarà la portata di questo processo che aprirà le comunità Jalq'a al mondo esterno, e che amplierà gli orizzonti di questa gruppo etnico oltre la cerchia ristretta delle montagne andine a nord-ovest di Sucre. Quello che sembra è che ancora si tratta di un processo assai lento ed incerto, che però potrebbe assumere a breve una repentina accelerazione.

La forza della modernità può essere travolgente, e potrebbe annientare il sottile filo della memoria, soprattutto quando questa si sviluppa secondo un vissuto ciclico invece che lineare. Per quanto ho potuto osservare nel mio viaggio tra gli Jalq'a, poco o nulla esiste di una memoria lineare, sia essa storia o epica del passato. Di contro, tutto della loro identità sembra appeso alla memoria ciclica di un presente, che periodicamente si ripete. Come avviene nei disegni dei più elaborati e variopinti tra i manufatti tessili, la narrazione si svolge secondo l'immutabile calendario della nascita, del lavoro, della festa e della morte. Alla ciclicità della cultura contadina, si coniuga la memoria senza tempo dei miti, degli animali fantastici, e delle figure demoniache, che emergono nei tessuti come sogni di figure rosse sull'oscuro fondo del sonno. Di fronte a questa fragilità, il rischio che la modernità, mutando radicalmente le condizioni di vita di questi villaggi andini, possa travolgerne la memoria e la cultura è assai elevato.

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