
Il centro di Sucre è la città bianca. Le lunghissime strade che salgono dal grande parco alla cattedrale, fino al colle della Recoleta, sono tutte di edifici bianchi di calce. Bianche le chiese più antiche, come il convento della Recoleta, che domina dall'alto l'intera città, o quello di San Francesco, proprio accanto al suo cuore più vivo, il mercato centrale. Bianco anche questo, e ricco di ogni merce. Dalle carni degli allevamenti andini, alle spezie e la frutta più colorata disposta in acrobatiche piramidi variopinte nelle bancarelle del cortile. Bianchi sono anche gli edifici storici, come l'antico palazzo del governo, oggi uno dei più bei musei della Bolivia, dedicato alla storia della sua liberazione dalla colonizzazione spagnola, e a mostre temporanee che rendono fruibile per il grande pubblico l'arte contemporanea andina. Bianchi sono anche gli edifici dell'università, una delle più importanti del paese, resa viva da un'attiva popolazione studentesca. Una città dove tradizione e modernità sembrano aver trovato un equilibrio, tra l'antico aspetto coloniale delle strade, delle case con i patios interni, e un dinamismo che viene dallo sviluppo del commercio e del turismo. Una città che funge anche da cerniera tra l'oriente boliviano, ricco dei grandi giacimenti di gas e di petrolio, secessionista e ribelle al governo centrale, oggi presieduto da un indio Aymarà, e l'ancestrale mondo delle Ande.



E' proprio la visita a questo museo che mi convince a viaggiare verso Potolo, uno dei villaggi Jalq'a di maggiore importanza. Raggiungere Potolo non è un'impresa facile, soprattutto per le scarse informazioni disponibili per recarsi sul luogo. Alcuni indizi, fortunatamente, mi sono stati forniti dal personale del Museo, come i nomi ed i recapiti telefonici dei responsabili della comunità. Tuttavia, chiamare quei numeri di telefono, che corrispondono ad apparecchi pubblici, a disposizione dell'intera comunità, non rende le cose semplici. Dopo diversi tentativi, riusco a contattare qualcuno che mi risponde in un castigliano stentato. Gran parte degli Jalq'a, infatti, parla solamente la lingua locale, una delle tante varianti del quechua. Quindi, sono riuscito a fissare un appuntamento telefonico con Pablo, il responsabile per l'accoglienza della comunità, che però, non parlando bene il castigliano, non mi è stato di grande aiuto. Riesce a capire che sarei arrivato di lì a qualche giorno, ma non è stato in grado di spiegarmi come raggiungere il villaggio e con quali mezzi. Devo allora cercare una via alternativa per conseguire informazioni.
Una di queste è stata rivolgersi ad alcune agenzie turistiche di Sucre. Tuttavia questi operatori, che organizzano tours nella regione, sono molto restii a fornire informazioni. Loro offrono pacchetti turistici, che però limitano al massimo il contatto con le popolazioni locali, per lucrare su qualsiasi forma di intermediazione. Così non mi resta che tentare col nucleo di polizia di stanza presso la stazione centrale degli autobus. Sono loro ad aiutarmi a scoprire quali mezzi pubblici si recano giornalmente a Potolo e da quale area della città partono. Con queste informazioni sono pronto a mettermi in viaggio.
II: Verso Potolo
Prima delle sette, giungo in quest'area periferica. Intorno non c'è nulla. Una grande spianata in terra battuta, in mezzo a strade sterrate ed un quartiere di povere baracche di muratura e mattoni di fango. Alle otto, questa strana piazza comincia a popolarsi. Scendono gruppi di contadini, qualche decina di maiali si aggira pascolando intorno tra mucchi di detriti, e oche, galline e cani, che poco alla volta affollano la spianata. Sembra una strana sagra di campagna. Un enorme gallo scappa ad un'anziana contadina, ed un gruppo di volenterosi si offre a riacciuffare il fuggitivo. Poi, finalmente, arrivano due vecchissimi autobus e qualche camion. Riesco a scoprire che uno di questi andrà a Potolo, e che devo farmi avanti in una specie di baracchetta di lamiera che funge da officiolo per fare il biglietto. Siccome sono uno dei primi quaranta fortunati, riesco ad ottenere un posto a sedere, e malgrado altri viaggiatori cerchino di mettersi davanti, la donna che gestisce la vendita, lo assegna insindacabilmente a me. Mi sento profondamente grato per il suo senso di giustizia.
L'orario nominale di partenza è alle nove del mattino. L'autobus, però, partirà due ore dopo. La strada per Potolo, infatti, è in costruzione, e viene aperta brevemente solo durante la pausa degli operai, subito dopo mezzogiorno. Nel frattempo, ho tempo di familiarizzare con gli altri viaggiatori ed i loro rispettivi animali (polli ed oche), mangiare un paio di empanadas vendute da un ambulante, e di far caricare il mio zaino sul bagagliaio sul tetto. Finalmente si parte.
Il primo tratto del viaggio dura molto poco. Giunti al cantiere ci fermiamo in attesa dell'apertura della strada. Nel frattempo, dai dintorni, cala una moltitudine di contadini per vendere ai viaggiatori i loro prodotti. Anche qui, mentre aspettiamo la pausa degli operai, non ci resta che mescolarci ai locali, umani ed animali che si raccolgono da ogni parte. Nel frattempo familiarizzo con la mia vicina di sedile, un'anziana signora, infermiera in pensione, che mi parla, insieme ad altri giovani, delle feste tradizionali di Potolo e dei villaggi vicini, soprattutto del carnevale, e dei loro balli tradizionali. Tutti sono dispiaciuti che in questo periodo non posso assistere alle celebrazioni dell'estate australe, e sono incuriositi dal mio interesse. Finalmente si riparte.
La strada in salita, corre lungo i margini della montagna. E' strettissima e contornata da precipizi. I freni del vecchio autobus si rompono, e scendiamo per qualche decina di metri, ma grazie alla prontezza dell'autista, ci ancoriamo al muro dal lato della montagna. Tutti i passeggeri scendono precipitosamente spaventati, guardando, sul lato opposto, il burrone. Dopo un po', l'autista e il suo assistente riescono a riparare il mezzo, ma molti non vogliano risalire. Finalmente, dopo tante rassicurazioni da parte dell'autista, si riprende il viaggio attraverso le montagne, fino a Potolo.
Il villaggio si trova a qualche centinaio di chilometri da Sucre, ma è un mondo a parte. Nel piccolissimo centro, le strade sono tra casette di muratura, quelle più ricche, o di adobe, la maggioranza. Ci sono due o tre piccole botteghe, presso le quali si vendono beni di prima necessità, mentre i due edifici più importanti sono la chiesa (chiusa) e la scuola. Tutt'intorno sono piccoli campi e casette di adobe. In una di queste abita Pablo, il responsabile del villaggio. Oltre, è un bellissimo paesaggio di montagne, colline argillose e il fiume, dalla portata ridotta in questa stagione, che scorre poco oltre il paese. La vallata è dominata da un piccolo santuario, sede di un pellegrinaggio locale, in cui il culto cristiano si mescola con quello tradizionale per la madre terra. Qui, i contadini da tutti i piccoli villaggi circostanti accorrono per esprimere i loro voti, e ringraziare Dio o la Madre Terra delle grazie ricevute.
III: Finalmente arrivato
Il bungalow è dotato di ogni comfort. Tutto quello che manca nelle case dei contadini Jalq'a, lì si trova. Comodi letti con coperte e lenzuola pulite, tavoli e sedie, fatti tutti artigianalmente con materiali locali, il privilegio di un bagno con la doccia (anche se gelida), un pavimento in muratura e blocchi di pietra, e, grandissimo lusso, l'elettricità. Eppure, malgrado, queste buone strutture ricettive, sono pochissimi i turisti che riescono a raggiungere questo villaggio, e gli ultimi ospiti erano venuti molti mesi prima.
Pablo e Pedro mi vengono a trovare di notte, e concordo con loro di avere una guida locale che mi accompagni per il territorio Jalq'a per visitare le montagne, le zone archeologiche e i villaggi circostanti. Dopo qualche ora ritornano insieme a Trifòn, da domani la mia guida Jalq'a.
IV. Da Potolo a Maragua

Il guardiano Tumpeca, che si occupa del sito, mi mostra i pochi studi realizzati da un'università americana ed una boliviana, che si limitano ad una semplice classificazione dei tipi iconografici, senza avanzare alcuna concreta ipotesi sul significato iconografico delle opere rupestri.
Abbandonati i siti archeologici si continua per un sentiero che passa per terrazzamenti e baracche, disabitati nella stagione invernale, fino a giungere alla valle del fiume Ravelo. È una delle aree più pittoresche di questo percorso, con ampi campi coltivati, prati e boschi di eucalipti, che la luce intensa del pomeriggio rende brillanti nei colori: il verde dell'erba, l'oscuro della terra, il rosso dell'argilla, e l'acqua del fiume che scende brillante tra le pietre bianche.

Agricoltura e pastorizia sono alla base della nazione Jalq'a, le cui povera economia sembra vivere lontano dal tempo e dalla modernità, seguendo un calendario dettato dai cambi di stagione. La contraddizione che appare immediatamente è quella tra la bellezza del paesaggio, in cui l'azione dell'uomo sembra coniugarsi armonicamente alla natura del luogo, e la fatica della vita, resa difficile dagli esigui e primitivi mezzi di produzione.
Al termine del sentiero lungo la sponda del fiume, si giunge ad una carrozzabile, che porta fino a Chaunaca, un piccolo villaggio, dove è possibile fermarsi per riposare e rifornirsi d'acqua potabile. Lo facciamo presso due antiche vecchiette, che Trifòn sembra conoscere bene. Le incontriamo in un cortiletto chiuso tra mura e due baracchette d'adobe, un po' casa un po' stalla, dove a piede libero circolano galline, paperi, cani e conigli.
Anche qui, come a Potolo, il progetto di cooperazione dell'Asur ha permesso la costruzione di bungalows per i pochi viaggiatori che si addentrano in questo territorio, e così possiamo contare su di un comodo letto per la notte.
V. Come in un cerchio, il ritorno, da Maragua a Potolo
Nel cammino verso Potolo, incontriamo pochi pastori. Una giovane adolescente, insieme ad un fratellino più piccolo, col loro gregge di capre, e un uomo che porta al pascolo i suoi asini. Per il resto, le poche case che incontriamo sul cammino appaiono abbandonate. Saranno nuovamente popolate nel corso della stagione calda, quando, durante i mesi estivi, i piccoli allevatori locali, risaliranno verso le quote più alte.

Come avviene per tutte le risorse del territorio, lo sfruttamento della salina avviene a vantaggio della comunità locale. La sorveglianza e l'estrazione del minerale viene curata da un membro della comunità, incaricato di stare presso il sito e di vendere o barattare il prodotto ad acquirenti che si recano sul posto. Il ricavato viene impiegato per progetti che vanno a vantaggio dell'intera comunità. La commercializzazione del sale è solitamente effettuata da piccoli proprietari di animali da soma, che sono gli unici che possono raggiungere la salina. Estrazione e commercializzazione del sale, come tutte le altre attività che si svolgono sul territorio Jalq'a, è parte di un'economia che ha respiro locale, e che si mantiene solo nell'isolamento delle comunità che abitano questa regione montuosa, con contatti limitati o inesistenti con i maggiori centri cittadini circostanti.
Risalita la valle del fiume sul versante opposto alla salina, il percorso verso Potolo è assai agevole, e si snoda prima lungo un'ampia carrabile, poi attraverso agevoli sentieri lungo le colline argillose sul versante sud-orientale del villaggio. Dall'alto si coglie lo sviluppo del territorio circostante: Potolo appare su un'ampia pianura alluvionale, con piccoli appezzamenti intensamente coltivati.
Per dei giovani che hanno sempre vissuto nel villaggio, con una vita che li obbliga alla sedentarietà dei lavori del campo, i luoghi che ho visitato nel sud del Lipez o nella regione di Potosì sembrano mitici e irraggiungibili. Il mio racconto del Salar de Uyuni o delle miniere del Cerro Rico, accompagnato dalle mie foto di viaggio, sembrano avere un forte impatto sulla loro immaginazione. Eppure, da Potolo, anche Sucre, relativamente vicina, appare remota ed esotica, una città fantastica e meravigliosa, quasi come quelle di cui parla Calvino nel suo libro. Di Sucre e del suo mercato “campesino” hanno soltanto sentito parlare dai più grandi come di un luogo di mistero ed avventura.
Questo totale isolamento, nel quale vivono i villaggi Jalq'a, ha fatto sì che si siano mantenute con fedeltà le tradizioni locali. Molti Jalq'a, come Pablo, continuano ad indossare il vestito tradizionale di lana, interamente lavorato a mano: i pantaloni, la pesante camicia, la giacca e il cappello a falde piccole, tutti rigorosamente bianchi, con fasce decorative a disegni geometrici su fondo scuro. Questi non sono abiti di festa, per celebrare ricorrenze importanti, ma indossati quotidianamente, vengono portati per lavorare nei campi. Qui, si sono anche conservate le feste legate al ciclo contadino, e soprattutto il carnevale, con danze tipiche, di cui mi parla diffusamente e con orgoglio Trifòn. Così, si è anche conservata una tradizionale produzione tessile, che adesso, però, viene vista come un'importante opportunità economica, da quando l'ASUR ha permesso una maggiore commercializzazione dei manufatti locali.
Anche il lavoro nei campi, che si svolge con mezzi arcaici, sembra ereditato da un passato immutabile. E così pure l'allevamento, il commercio, e tutta l'economia locale, che si sviluppa su un territorio limitato, non superando il livello della sussistenza.
Aspetti arcaici si riscontrano anche nell'impiego e sfruttamento delle risorse del territorio, che fa sempre capo alla comunità locale del villaggio, su basi collettive. Così, sono le comunità locali che si fanno carico sia del mantenimento e sorveglianza dei siti archeologici rupestri, delle risorse minerarie, come lo sfruttamento delle saline, o dei progetti di sviluppo collettivi, come quello di turismo rurale, pur se amministrato con troppo ingenuità e promosso con scarsi risultati. Ed ovviamente, è la comunità nel suo insieme che ne amministra i benefici.
In questo territorio, l'emergenza della modernità è ancora un'evenienza accidentale, portata da qualche occasionale antropologo, dagli insegnanti al servizio delle poche scuole locali, o dai pochissimi turisti che si addentrano in questa regione. Questi ultimi, spesso, resi inavvicinabili dall'insuperabile barriera dei fuoristrada guidati dagli operatori turistici di Sucre, o dal muro degli idiomi e delle culture diverse. L'isolamento delle comunità è anche prodotto dall'assenza di servizi di base, come la mancanza di servizi sanitari oppure di una rete di distribuzione postale, che oggi rende impossibile inviare o ricevere alcunché in questo territorio andino.
È probabile che l'ampliamento della rete stradale, promossa dal governo centrale, avrà un forte impatto sulle popolazioni che hanno vissuto isolate per secoli. È difficile valutare quale sarà la portata di questo processo che aprirà le comunità Jalq'a al mondo esterno, e che amplierà gli orizzonti di questa gruppo etnico oltre la cerchia ristretta delle montagne andine a nord-ovest di Sucre. Quello che sembra è che ancora si tratta di un processo assai lento ed incerto, che però potrebbe assumere a breve una repentina accelerazione.