

Quando arrivo a Potosì, una delle città più alte dell'America Latina (oltre 4500 metri sul livello del mare), la regione è investita da una grave ondata di freddo, che provoca la chiusura delle scuole e rallenta ogni altra attività pubblica. La città conserva bellissime tracce del suo ricco passato. Con lentezza visito il suo centro, ricco di sfarzosi monumenti barocchi. La lentezza della visita è obbligatoria. La rarefazione dell'ossigeno, impone di rallentare ogni movimento, e quasi aiuta a gustare i magnifici monumenti dell'epoca coloniale. La sua cattedrale, adesso in corso di restauro, la chiesa di Santa Maria della Merced, il Monastero di Santa Teresa, dove venivano rinchiuse in clausura le secondogenite delle più ricche famiglie locali, la facciata del collegio del Gesù, ed il monastero di San Francesco, la più antica fondazione religiosa della città. Nel centro, a pochi passi della cattedrale, ed adiacente alla piazza maggiore, è il palazzo più grande, ricco e pretenzioso, quello della Moneda, un tempo sede della zecca, adesso il più importante museo di Potosì e sede dell'archivio storico della città. Differentemente da tante altre città coloniali dell'America Latina, Potosì presenta monumenti che sono unici, e per il loro sfarzo emulano quelli della madrepatria spagnola. E' come se una città della Spagna, unica per la sua ricchezza, fosse stata trapiantata nel nuovo mondo.
Dai tetti della chiesa di San Francesco, malgrado il vento gelido, posso godere di una vista panoramica di Potosì. Da una parte la città coloniale, con le sue strade organizzate in una griglia regolare, dalle quali spiccano gli antichi edifici con le loro facciate di pietra scolpita, orgoglio dell'architettura locale; dall'altra il cosiddetto Cerro Rico, l'origine di tanta magnificenza, la sorgente della “plata” della città. Alla base del Cerro è un quartiere di case basse, la “colmena”, da secoli abitato da minatori, e tante piccole chiese. E mentre le grandiose facciate delle chiese della città guardano con superbia al Cerro, origine della loro magnificenza, le facciate delle povere chiese dei minatori voltano le spalle alla montagna, origine di fatica, sofferenza e morte.Per capire meglio la città e la sua storia è necessario comprendere la storia della mineria locale. Mi rivolgo così a Julio, un ex minatore che dirige un'agenzia turistica nel centro della città. La scelta non è casuale. Julio, non solo si occupa di organizzare tour nelle miniere, un'attrazione che ha quasi offuscato l'importanza storica, architettonica e urbanistica di Potosì, ma anche di valorizzare i monumenti della città, promuovendo un turismo consapevole ed eco-sostenibile. Mentre tante agenzie di tour minerario offrono visioni spettacolari delle miniere, e per il divertimento dei visitatori organizzano esplosioni controllate nelle vene del Cerro, danneggiando in maniera irreversibile la montagna, Julio e le sue guide si occupano di rendere comprensibile la cultura dei minatori di Potosì, e legare la storia del Cerro Rico a quello della città. Alicia, che lavora per la stessa agenzia, mi spiega la lotta che Julio sta conducendo per valorizzare il patrimonio della città, architettonico e culturale, perché i visitatori si interessino più alla storia di Potosì, che agli aspetti spettacolari, ed a volte devastanti, della mineria. Così, dopo un primo approccio, prendo accordi per visitare il Cerro Rico e una delle sue miniere il giorno successivo con Carlos, uno dei collaboratori di Julio.
Al mattino incontro Carlos all'agenzia. Di lui sapevo che era stato dieci anni in miniera. Così, il suo viso giovane ed un po' scanzonato mi stupisce. Mi aspettavo un vecchio minatore consumato dagli anni e la fatica, e mi ritrovo un giovane dal viso allegro. Ma è solo un'apparenza. Carlos ha cominciato la sua vita di minatore da bambino. E' sceso nelle gallerie del Cerro ad otto anni, per mantenere la sua famiglia dopo la morte del padre, ed ha continuato per oltre dieci anni. Dopo, ha smesso, per sfuggire ad una vita che lo avrebbe condotto ad una morte precoce. Infatti, la vita di un minatore del Cerro è assai breve. Dopo quindici o venti anni di lavoro, il minatore è condannato alla silicosi, e destinato ad una lenta morte tra terribili sofferenze.
Al Cerro, di fronte al boccamina della “Cooperativa 27 de Marzo”, incontriamo un gruppo di minatori che si prepara all'ingresso. Sono le 10 e mezza del mattino, e tra poco questi uomini, seduti su panche o per terra, che lentamente masticano le loro foglie di coca, cominceranno a lavorare. La coca viene consumata prima dell'inizio del lavoro, per permettere loro di essere già fisicamente preparati alla fatica. Continueranno a masticarla per tutta la loro giornata lavorativa. Mi avvicino, e mentre Carlos mi presenta, offro loro un poco della coca che ho acquistato al mercato, che viene accettata di buon grado, insieme alle mie domande. Mi viene spiegato come funziona la miniera. Un tempo, le miniere del Cerro erano di stato, o date in concessione dallo stato. Negli anni '80, a causa della scarsità del minerale, le autorità avevano deciso di chiudere la mineria di Potosì. E' allora che i minatori cominciarono una dura lotta senza esclusioni di colpi e violenza per ottenere la riapertura del Cerro. Anche se il lavoro è duro e mortale, per molti di loro era l'unica prospettiva di sostentamento, mentre per altri una ragione irrinunciabile di orgoglio e identità. Alla fine lo stato capitola, ed accetta che i minatori si organizzino in cooperative, per sfruttare quello che resta del minerale di Potosì. Le diverse aree del Cerro vengono quindi date in sfruttamento alle cooperative. A sua volta, ciascuna cooperativa, affida i suoi filoni ad i soci, che le sfruttano.Il lavoro in miniera, anche se cooperativistico, è fortemente gerarchizzato. Ogni socio, che sfrutta un settore della cooperativa ha sotto di se un “segunda mano”, un vice, ed a loro volta sotto di loro sono i semplici minatori, i cosiddetti peones. Mentre i peones ricevono uno stipendio, che può variare a seconda della ricchezza delle vene che riescono a trovare e sfruttare i soci, i soci ed i segundas manos dividono tra loro i profitti del minerale. Così, se il socio è capace di trovare una ricca vena nel Cerro, è a lui ed al suo vice che vanno la maggioranza dei profitti. Carlos mi spiega che per diventare segunda mano è necessario acquisire un'esperienza decennale nella stessa miniera e con lo stesso gruppo. Poi, in base all'ulteriore esperienza acquisita, un segunda mano può diventare socio col sostegno del suo stesso superiore, ed acquisire questa posizione di prestigio. Carlos mi spiega che lui non è riuscito a progredire nella gerarchia, perché ha dovuto cambiare diverse volte gruppo minerario nel corso della sua attività per la povertà dei filoni trovati.
In questa lunga pausa in galleria, Carlos mi racconta le leggende del Cerro Rico ed il rito del carnevale. E' a carnevale, che il Tatacachu viene rimosso dalla galleria e portato in chiesa per una cerimonia religiosa. Per una settimana, il Tatacachu resterà fuori della miniera, ed allora i minatori prenderanno una pausa dal lavoro. Nel corso della settimana, tuttavia, i minatori non abbandonano il Cerro. Insieme alle cerimonie col Tatacachu, offrono sacrifici di fronte al boccamina. I minatori anziani uccideranno dei lama, e poi cospargeranno col sangue degli animali l'ingresso della miniera e le baracche circostanti dove si riuniscono e custodiscono i loro attrezzi. Solo al termine della settimana del carnevale, quando il Tatacachu farà ritorno alla sua galleria-cappella, portato e accompagnato dai soci della cooperativa, il lavoro potrà riprendere.
Risalendo verso la luce, Carlos mi mostra la struttura delle gallerie. Quelle più profonde di viva roccia, poi quelle più ampie, puntellate da strutture di legno, ed infine quelle più esterne costruite in pietra a volta di botte, un autentico lavoro di ingegneristica ed architettura. Carlos mi spiega che non esiste una mappatura del Cerro, soprattutto da quando lo sfruttamento non è più affidato a compagnie minerarie che avevano ingegneri. Adesso tutto è in mano ai minatori, così pure la sicurezza. Solo i minatori della cooperativa sarebbero capaci di tirarci fuori in caso di incidente, o se dovessimo perderci nelle gallerie. Mi rassicura dicendomi che i minatori sono al corrente della nostra presenza, e se non dovessimo ritornare in superficie in un tempo ragionevole, verrebbero sicuramente a cercarci. Noi dal nostro canto, abbiamo le tubature d'aria compressa, che comunque ci guiderebbero verso i livelli superiori.
La miniera, con le sue ricchezze, i suoi uomini, le sue tradizioni, è come il cuore pulsante di questa comunità. E' un aggregato di pane, sofferenza e identità. Ed è forse proprio questo che tiene uniti tra loro questi uomini nell'orgogliosa pratica di un lavoro terribile e mortale, al fondamento dell'esistenza storica di Potosì, l'antica città d'argento.

Potosì ed i suoi minatori in lotta, una rivendicazione di dignità e sviluppo (16.8.2010)Mentre sto scrivendo la mia corrispondenza di viaggio, Potosì è isolata da un blocco di protesta cui partecipano anche (e soprattutto) i minatori ed i sindacati locali, che dura ormai da venti giorni. Il blocco isola completamente Potosì, ed impedisce non solo ogni spostamento di persone e cose da e per la città, ma anche ogni forma di approvvigionamento alimentare, sanitario ed energetico. Si conta che attualmente le provviste di latte per i bambini sono prossime all'esaurimento, così come quelle di insulina e di gas combustibile. Al blocco di protesta si sono anche unite le autorità locali, incluso il governatore Felix Gonzàles del MAS (partito di governo del Presidente Evo Morales), che ha attuato uno sciopero della fame, e il sindaco Joaquino, del partito di opposizione, unendo così esponenti di tutte forze politiche. La protesta è rivolta contro il governo centrale, ed ha avuto origine in una disputa territoriale per l'assegnazione del territorio di Coroma-Quillacas tra i neo-costituiti dipartimenti autonomi di Potosì ed Oruro. Il territorio conteso è strategico per lo sviluppo di Potosì, una delle regioni più povere della Bolivia. Coroma, infatti, è ricca di “piedra caliza”, materia prima per la fabbricazione del cemento, che potrebbe aprire nuove prospettive economiche per Potosì e il suo territorio, i cui residenti sono spesso costretti all'emigrazione. Inoltre, notizie di origine ufficiale e riportate dalla stampa boliviana confermano che l'area in questione è anche ricca di uranio, che offrirebbe nuove opportunità di sviluppo. La protesta di Potosì non si limita ad una rivendicazione territoriale, ma chiede un adeguato sviluppo del territorio. In particolare, il comitato potosino con i manifestanti chiede l'ampliamento dell'aereoporto locale perché possa diventare internazionale; una politica di conservazione del Cerro Rico, patrimonio storico e paesaggistico inestimabile, la cui cima rischia collassare per l'intensivo sfruttamento minerario dei secoli passati; la riabilitazione dello stabilimento metallurgico di Karachipampa; e l'installazione di una fabbrica di cemento nell'area contesa di Pahua (nel territorio di Coroma). Con la lotta che coinvolge tutte le forze produttive della città, e soprattutto i minatori, Potosì chiede che le sia riconosciuto il secolare contributo che ha offerto all'intera nazione, rivendicando la salvaguardia del suo territorio e lo sfruttamento delle sue risorse a beneficio della popolazione locale. Un appello perché il secolare contributo di una comunità mineraria avvenga attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro e il riconoscimento della sua dignità.